Alessandro Berti è il pittore dalla cui collezione proviene il cranio che si è trasformato da elemento di crudezza a gioiello stupefacente.
Fiorentino ritroso, di inesausto fervore, è paesaggista di ariose e marezzate pennellate; ma anche interprete della scena urbana nella sua solitaria monumentalità; e infine ritrattista di indiscussa perizia nelle sanguigne classicheggianti. Dotato di una sintassi figurativa di antico impianto Berti rappresenta il reale con forte senso della tradizione pittorica ma con in più una accattivante grazia scenografica che mai scade nell’illustrativo.
Colto didatta del disegno, ne insegna storia e segreti in una prestigiosa scuola fiorentina e se ne giova soprattutto nei preziosi suoi ritratti che hanno perizie annigoniane ed echi solenni d’affresco. Diverso è Berti paesista, toscanissimo ma a suo modo, che ha ben guardato la pittura europea. Rompendo la fedeltà a isole, Corsica e Elba – dove la pennellata è insieme densa e stenografica con vaghe sapienze post-macchiaiole – alle visioni urbane di Chicago, la sua recente America, dove la volumetria dei grattacieli ha sapori inediti di scena modernissima. A cercare un intimo e profondo legame di coerenza fra queste immagini dipinte, si potrebbe azzardare che esso è costituito da un sentimento della solitudine, di sconsolata fedeltà al vero, talora – nel paesaggio soprattutto – di asciutto e tenero rimpianto.
Di contro a questi paesaggi isolani, campestri e urbani, sempre rigorosamente deserti di figure, stanno – all’opposto – i suoi molti e peritissimi ritratti. Adolescenza e vecchiezza sono i tempi di crisi esistenziale in cui Berti sorprende i suoi soggetti, perlopiù muliebri. Perplessità e tenerezza, ma intrise di costante malinconia, sono i dati che questo pittore meglio rappresenta, conferendo ai volti e alle figure, pur nella formidabile fedeltà fisiognomica, una attraente miscela di fragilità e di solennità insieme.